Anton Fotev
translater — Stefka Guneva
il parlar del cuore;
le labbra ingannano sempre,
anche senza volerlo.”
Suo nonno aveva gli occhi scuri, i capelli bianchi e le lunghe dita affusolate che rivelavano una certa rigorosità, talvolta perfino un neurosismo. Rashid volgeva spesso lo sguardo sulle palme strette del nonno: sotto la loro immobilità apparente si intuiva una tensione sostenuta. Il ragazzino si trasportava ascoltando come il vecchio gli descriveva con la parola piana, accentuata, l’incanto dell’arte di disegnare. La voce rauca risuonava, sorda e moderata, nella penombra della stanzetta e faceva penetrare il pensiero puerile lontano lontano, nelle profondità del recondito. In tali attimi, il piccolo aveva il senso che le loro conversazioni dell’ieri, dell’oggi, del domani, si fondessero in una sola, lasciando per sempre un’imprinta nel cuore.
* * *
Cosi percepi le parole del nonno anche quella sera in cui Gheorghi Brancevich gli rivelò con un sorriso enigmatico che anche i colori avevano l’anima. L’ascoltatore dell’età tenera solo annui e, fissando lo sguardo nella faccia del vecchio, continuò ad ascoltarlo. Gheorgi accarezzò il nipotino. E con quella mossa fece scivolare la coperta dai ginocchi. Il largo tessuto a quadri bianchi e verdi cadde felpato per terra scoprendogli le caviglie scarne.
“Vedi quel bianco?”, si senti la voce nasale del nonno. Il ragazzo chinò la testa in conferma. Le sue manine si tesero da sole per ricoprire le gambe del vecchio. Mesi fa, avevano il riscaldamento centrale. Poi cominciarono dei bombardamenti. E la conseguenza ne era la mancanza di calore.
“Non é un colore, il bianco, mio piccolo Rashid,” fece il vecchio rasciandosi la gola, “il biancore é privo di colori, privo di vita. É di origini remote, era già esistito prima della nascita dei colori, al di là della gamma cromatica. É l’inizio e la fine. L’inganno e la verità dell’intero… del tutto… di tutti gli aspetti.”
“Non posso capirti…”
“É come la neve,… come il disco solare di mezzogiorno, in una caldissima giornata di luglio. Fa gelare oppure incenerire. Capisci almeno questo, vero, piccino? Bisogna usare il bianco con attenzione!”
“Perché é freddissimo o caldissimo, vero?”, annui il ragazzino docilmente accarezzando con il ditino un quadro colorato. “E il verde allora, cos’é?”
“Il verde?”, sorrise il nonno nella penombra della stanzetta. “É il colore piú profondo del cuore. Il rosso esala passione, amore. Il celeste — affetto e felicità. Il giallo — paura e rabbia, ma può anche essere lo scintillare abbagliante di una grande mente lucida… Mentre il verde… é il colore dell’anima stessa.”
“Mica l’anima ha il colore? Come mai, nonno?”
“Semplicissimo, Rash. Sai già come i colori nascono l’uno dall’altro, vero?”
“Certo. Basta mescolare il giallo e il blu, e allora…”
“Giusto, piccino. Quando l’oro dell’ira viene incontro alla delicatezza zaffirina dell’affetto e la perspicacia della mente lucida si fonde con il semplice azzurro della felicità, nasce il Verde, il sentimento.”
“Sono troppo complicate le tue parole, nonno, non le capisco…”
“Va bene!” Sospirò il vecchio. “Hai già visto delle donne e degli uomini bacciarsi, vero?”
“Si,… sono come… come due metà di un magnetino,” proferi Rashid e trasali sentendo il riso approvativo dell’anziano.
“Giusto, é un’osservazione precisissima, quella tua, piccino, a meraviglia. É proprio cosi se si guarda da parte… Ma appena che sarai diventato una metà di quel magnetino, ti sentirai bruciato dal fuoco. Immerso nelle fiamme, ti farai uno con la stessa passione che ti incenerisce! Però, la passione, anche se bella, non é che un’emozione. É l’unico, il vero amore, che dà vita al sentimento!… E in tutti i sentimenti si nasconde qualcosa di verde! Adesso non riesci a capirmi, lo so, ma ciò che ti sto dicendo é importantissmo, Rashid! É necessario che te lo tenga bene a mente perché un giorno o l’altro lo comprenderai.”
“Si, nonno!”, annui il nipotino.
“Ti darò un compito interessante: vorrei che tu ti metta ad osservare il Verde ovunque lo veda. Lo farai?”
“Certo, nonno”, chinò la testina il piccolo Kodzha appoggiando il mento al pugnetto. Guardava a bocca aperta il vecchio che pigiava del tabacco nella pipa. Poi l’accese e la fiammetta gli illuminò il viso gettando delle ombrette fioche e rossicce sulla siluetta ingobbita. Il nonno sembrava fragile eppure colmo di una conoscenza misteriosa, di un pensiero inaccessibile; era fiacco eppure irradiava un recondito vigore interno.
I due si scambiarono un’occhiata di comprensione tra la nuvoletta crescente del fumo di tabacco e sorrisero l’uno all’altro, da complici. Gheorghi Brancevich toccò la palmetta puerile con le sue dita lunghe, affusolate e scarne di pittore che era, proveniente da una generazione di artisti.
“Va a letto, piccino. Domani devi andare a scuola.”
“Si, nonno, ci vado!” Il ragazzino si alzò con la voglia di baciare la guancia del nonno, ma si trattenne di farlo perché pensò che un simile atto sarebbe stato troppo “alla ragazzina”. E nello stesso istante senti un presentimento suggerirgli che ben presto se ne sarebbe pentito di non averlo fatto: molto di piú di quanto potesse immaginarsi. Fu un senso di perdita recente: un bagliore smeraldino davanti agli occhi e un gusto di tempera verde assaggiata sulla punta della linguetta.
* * *
cade la pioggia sul bosco.
Milioni di tamburini verdi”.
Il giorno seguente Rashid guardava distratto fuori dalla finestra della classe. Aveva dimenticato il discorso e tutta la mattina contemplava gli alberi enormi nel cortile della scuola. I rami spogli somigliavano alle braccia intirizzite, annerite, con le dita storte. Eppure quà e là erano già spuntati dei germogli primaverili che spargevano un friabile lucicchio verde chiaro. Finita la terza lezione, piovigginò e dopo — che meraviglia! — i pioppi illuminati dal sole si trasformarono in costellazioni smeraldine di foglie tenere e gocce d’acqua piovana splendenti.
Come era bello… da farti morire, piangere!
Il ragazzino cadde in torpore. Lo sguardo gli si perse negli alberi che parvero altissimi, immensi nel loro verde. Si inalzavano nell’alto del cielo, gli riempivano lo sguardo, lo incantavano.
Si abbandonò tutto alla magia. Nemmeno se ne accorse da quando e per quanto tempo si fosse allontanato dalla realtà. Trasali nel momento in cui senti il campanello suonare l’inizio del secondo turno delle lezioni. Capi che era rimasto solo nella classe, per un’ora intera o forse anche di piú, immerso a contemplare i pioppi. Scosse la testa e palpebrò. Si liberò dall’incanto in cui cadde a propria voglia. E si recò a casa. La testa gli girava. E l’anima restava ancora in preda dell’incanto di quel colore tenero e profondo.
Strada facendo si imbatté a un cestino rovesciato da cui sporgeva una vuota bottiglia da birra. La prese ed accostò un occhio al suo collo, strizzando l’altro. Un binoccolo magico che prometteva di svelargli tanti segreti strani e pericolosi, tanti misteri che serbavano i visi dei viandanti frettolosi e le facciate grigiastre dei fabbricati circostanti.
Il fondo di quella bottiglia faceva il mondo apparire davvero fantastico e verde. Un mondo che aveva recuperato la vera sostanza di cui era privato dagli esseri umani chiassosi e rumorosi e dalle macchine rombanti.
Il ragazzo alzò in sú quello strumento magico che era la bottiglia e vide un cielo oscuro, giallognolo, come se una tempesta stesse li li per piombare. Nelle fosche profondità galleggiavano delle isole smeraldine sotto cui lampeggiavano delle scintille abbaglianti; pareva che da qualche parte si sentissero volare le grida degli alcioni. Poi il piccolo volse quel binoccolo improvvisato a un semaforo e si impressionò scorgendo attraverso il vetro della bottiglia che quell’immobile ometto rosso del semaforo si trasformò in una macchia nerastra. L’occhio giallo del semaforo si fece blu e la luce sottostante cambiò il colore dal verde in un bianco opaco. Il ragazzino, perplesso nelle sue osservazioni, allontanò il binoccolo e spalancò gli occhi per accertarsi che, in realtà, la luce dell’“Avanti “non aveva cambiato il solito colore…
Il nuovo gioco gli piacque. Strizzò l’occhio. Socchiuse le palpebre: ed ecco che tutto il mondo d’un tratto cambiò trasformandosi in un magnifico quandro in cui si intrecciavano tinte e forme. I delineamenti reali svanirono.
Il ragazzino si fermò a bocca aperta, immerso nello stupore…
* * *
La sua strada passava attraverso le rovine rimaste dai bombardamenti. Fu la prima volta nella sua vita che le guardò tranquillo. Si mise a contemplare quasi esplorando gli alti alberi e l’erba che era cresciuta tra i fabbricati sventrati. Si fermò incantato invece di correre come usavano fare tanti altri monelli. E si immerse nel mondo meraviglioso di quelle piante smeraldine che gli si innalzavano di fronte, maestose, che assomigliavano a cattedrali. Si lasciò in preda di quel silenzio profondo che gli regnava attorno: niente pareva che fosse in grado di turbarlo.
Si sedette su un muro distrutto, piegò le gambe impensierito. E gli venne in mente un confronto spontaneo fra il luogo dove si trovava nel momento e l’altro quertiere adiacente che era rimasto intatto. Di fronte — un caos di fabbricati traboccanti di gente adulta travagliata, ansante.
Ad un tratto si accorse di come era stretta la strada, rovinata dai proiettili. Che senso d’insano spirava dall’aria di quella struttura meccanica che aveva diviso gli alveari umani ronzanti dal verde inebriante, benefico, che cresceva vigoroso tutt’attorno. Che fascino si esalava da quel paesaggio, tra le fiamme danzanti di una vita che aveva lasciato la sua impronta in quelle creature verdi simili a vivi monumenti risorti dal tempo che fu: quando il ritmo pulsava moderato.
Intese che non aveva affatto voglia di andarsene. Volle restarci per sempre. E in quello stesso istante se ne accorse che era un desiderio irrealizzabile, quel suo, quasi assurdo. Lui era un essere umano, quindi, non gli restava che proseguire il proprio cammino strisciando fra i corpacci dei fabbricati che si ergevano di fronte.
Lo intui. E si mise a piangere, silenzioso, sommesso.
* * *
seppellitemi sotto le acque di Danubio
dove tante ninfee candide
emergono galleggianti…”
Il nonno stava in camera a luce accesa. Era strano. Rash fu preso da un senso momentaneo di irrequietudine. Non per lungo. Moriva di una stanchezza mai provata prima. Il vecchio solo lo guardò e gli disse di andare a coricarsi nella stanzetta. E di non perdere tempo per chiacchiere e televisione.
Il ragazzo acconsenti e andò subito a letto. Ma il sonno rifiutava di toccargli l’animo ardente di emozioni. Senti una vaga tensione rodergli l’animo. Piú turbato che mai, si dimenava nel lettino. Infine il vecchio parve se ne fosse accorto che il piccolo non voleva star solo e venne nella stanzetta per calmarlo. Pose la mano fredda sulla fronte del nipotino. E la voce senile accarezzò la quiete ansiosa che regnava nella stanzetta.
“Voglio raccontarti una cosa, piccino. Temo però che tu non sia ancora in grado di capire ciò che intendo a dirti.”
“Allora perché me la vuoi raccontare?”, proruppe il nipotino, fino a poco fa sonnolente ma subito dopo sveglio, esausto di stanchezza e nello steso tempo tutto ardente di un tremore malsano.
“Perché sono già vecchio; e quel ricordo che voglio condividere con te é tanto bello. Vuoi che te lo racconti?”
“Si, nonno,” obbedi il piccolo. Sperava che la voce mansueta del nonno lo facesse assopire, piana e fluttuante com’era. Il vecchio sorrise. Tutt’e due sapevano benissimo che Rashid si addormentava facilmente ascoltando la voce del nonno. Trasognato, il ragazzo pensò che suo nonno, forse, parlava piuttosto fra se e non a lui.
“Il Danubio é uno specchio liquido nei piedi di quella fanciulla solitaria. La sto fissando di nascosto, volgendo la testa dall’orlo del bavero del cappotto in cui sono avvolto. Il profilo di lei mi turba l’animo. C’é una bellezza tragica in quei lineamenti classici che provengono da tempi ignoti o, forse, da un’insenatura misteriosa del grande fiume.
Non oso avvicinarmi a quella splendida creatura. Sto immobile. Sento le gambe e i piedi impietriti nelle scarpe logore di un giovanotto che ero allora. Avvolto nei miei panni modeste da studente, la guardo immobile e non ho il coraggio di venirle incontro. Tra quel vapore che esce dal fiume lei assomiglia a un’ondina affascinante comparsa da un’epoca antica. Tutta immobile, in abbandono, contempla taciturna chissa cosa, può darsi che lo sguardo di lei mirasse l’ignoto…
Quale sarebbe il colore dei suoi occhi?
Acquamarina, dico fra me abbracciando con gli occhi assetati la sua siluetta. Gli occhi di lei sono di color acquamarina. Non c’é un’altra creatura che possa avere gli occhi simili a quelli. Nessuna donna mi ha mai turbato, né é in grado di turbarmi. Solo lei, una sconosciuta! Inorridito, mi sento crollare, sprofondare,… trascinato da un’irresistibile voglia di avvicinarmi a lei. Faccio un passo timido e accenno con le labbra il saluto.
I miei passi vengono smorzati dalla coltre del fogliame. Poso i piedi su tenere fiamme multicolori. Cammino di fronte al proprio corraggio che, spero, mi impulsi a prorompere almeno una parola a quella bellissima fanciulla sconosciuta. Prendo il fiato e mi tuffo sotto l’ombra di luna, profilata dall’albero soprastante. Lei volge il collo appoggiandosi il mento sulla spalla.
Mi scorge…
Sento che il fiato mi si ferma dentro il petto. Il cuore perde un battito. E da quell’istante in poi la vita si chiude sull’orlo delle sue labbra: teneri e tristi, rivelano una certa scontentezza da bambina imbronciata che… Che un uomo piú sicuro di sé riuscirebbe a far svanire con un solo sorriso ardito.
Ma che ardimento! se resto senza fiato accorgendomi di quella nevicata che cade dentro il suo animo.
Vedo la tristezza fluire dei suoi occhi, di quegli sconfini laghi color acqumarina del suo animo…
Lei sorride mesta. Ascolto le sue parole tenerissime: un sussulto che mi tocca, tenerissimo come seta, una carezza timida. Un silenzio enigmatico composto da sillabe. Un chiaroscuro che trabocca di tenerezza e solitudine. La sua voce fluisce come un fiume nel mio cuore:
verrebbe qualcuno a cercarmi —
senno, me ne andrò per sempre!
Con i capelli scompigliati, a passo scalzo,
in mezzo alle cascate di farfalle:
una che sta sognando l’al di là.”
La voce del vecchio si smorzò. Le sue dita pallide e scanche arruffarono il ciuffo del ragazzo. Il nipotino si scosse. Apri gli occhi. Tese la mano per accarezzare la guancia del nonno.
“É stata la nonna, vero?”. E nelle pupille brillò una fiammetta giocosa. “É stata mia nonna, vero?”
“Si, germoglietto mio, hai ragione!”, la mano scarna accarezzò la fronte di Rashid. “Siamo stati studenti dell’Accademia delle Belle Arti. É stata lei ad insegnarmi che anche i colori hanno l’anima. E che il Verde é il colore dell’animo stesso! Dell’animo umano: povero e ricco, colmo di luce e tenebre… Dormi adesso, germoglietto mio…”
* * *
resterà per sempre
traboccante d’amore.”
Il giorno seguente, al ritorno di scuola, Rashid trovò un’autoambulanza di fronte all’ingresso. Sali e vide che il portone era aperto. Vide dentro un uomo accigliato e una giovane donna, tutt’e due in camice bianco. Non gli chiese di cosa stessero cercando accanto al letto del nonno. Li fissò immobile. L’uomo sospirò:
“Sta molto male, non posso trasferirlo. Guerra, che ne posso fare?. La clinica non ha piú dei medicinali.” Si strofinò la barba che gli era cresciuta e prosegui a voce piana: “Avete dei vicini?“
“Si, ma sono scappati dopo l’ultimo bombardamento”, rispose il ragazzo. “Perché temevano che il fabbricato crollasse e li seppellisse.”
“Chiaro!”, fece l’uomo fosco strofinandosi la barba. “Ho già chiamato un vostro parente. Sta viaggiando, verrà di siciro. Non resterai solo, Rashid. Ti chiami cosi, vero?”
“Cos’ha il nonno?”, chiese il piccolo.
“É molto vecchio; si vede che ultimamente non ha mangiato bene… E qui fa un freddo cane, l’aria é proprio gelida. Non avete riscaldamento?”
“No; il riscaldamento centrale non funziona piú, a causa dei bombardamenti”, strinse le spalle Rashid.
Le sue parole non impressionarono il medico che sembrava impassibile. La giovane donna che gli stava accanto, in camice bianco, palpebrò girando la testa. Parve tanto bella, in quell’istante, tanto mesta. Rashid intui che lei piangeva. Non per il nonno — per lui, ragazzino. E senti che gli si strinse il cuore.
“É l’unico nonno Gheorghi che ho. Fatemelo guarire! Vi supplico!”
“Non posso, purtroppo!”, lo sguardo del medico esprimeva un senso di colpa e di rabbia. “Non ho dei medicinali nell’autoambulanza. Ce n’é solo della morfina… una quantità che forse basterà… Ma non posso restarci… Ho altre otto chiamate di visite…”
La giovane singhiozzò. Il vecchio si moisse nel fondo del letto e proruppe con una voce mai sentita prima, fiacca fiacca da far paura:
“Non voglio la tua morfina, dottore. Se ne vada. Mi lasci solo, con il nipotino.”
L’uomo in camice bianco guardò cupo. Non disse nulla. Serrò le labbra. Mormorò sotto naso una maledizione contro la guerra, Signore, se stesso. Tutto aggrondato, usci fuori. La giovane donna lo segui, si fermò sulla soglia e chiese al ragazzo di chiudere il portone. Il piccolo le si recò dietro e la raggiunse nell’anticamera. La vide scrollare le spalle nascondendosi il volto nel cavo delle mani.
“Non piangere, zietta1!” le disse sottovoce e senti che qualcosa di caldo ed umido gli scottò la guancia. “Non piangere!”
“Quel farmaco…”, lei cercò di appoggiarsi, esausta, al muro, “quel farmaco per tuo nonno costa meno di trenta denari. Ma non si trova da nessuna parte.”
“Non piangere, zietta!”, ripeté il ragazzo strofinandosi gli occhi con la palma. “Non piangere!”
“Non posso abituarmi!” Come se un campanello si rompesse nella voce di lei. “Non posso abituarmi!”
“Non piangere, zietta,” disse Rashid accarezzandole la mano cadente. “Il nonno non se la prende con te, mai!”
Invece di calmarla, le parole del ragazzino la fecero scoppiare in lacrime. Infine, il medico accigliato tornò per prenderla. Se ne andarono. Rashid chiuse il portone a chiave. Si strofino il viso al cappotto del nonno per non lasciar alcun segno di lacrime. E solo allora si avvicinò al letto del nonno e mise la manina sulla fronte del vecchio.
“Ti duole?”
“No, piccino mio.” Il nonno provò di accarezzarlo ma le mani gli caddero prive di forza.
“Che hai?”
“Mi… sto spegnendo”, il vecchio abbozzò un sorriso colpevole. “Perdonami che ti lascio solo soletto…”
In un primo tempo Rashid non capi le parole del nonno; un fiato dopo senti che le guance gli si inumidivano e se ne accorse che piangeva. Si chinò e baciò la gelida guancia che pareva di ghiaccio.
“Ti voglio bene.”
“Anch’io”, la voce rauca del nonno svani per un attimo, “… vieni, giaci accanto a me, germoglietto, come facevi da piccino…”
“Va bene.”
Il ragazzo gli si accoccolò sotto l’ascella. Respirò l’odore di tinte, coperte usate, pelle viva che sapeva di pergamena. Dopo volse il volto e guardò il vecchio negli occhi. Al di là di quelle iridi grige Rashid vide fluire un altro colore, piú denso e profondo, vivo. Verde. Uno splendore in cui si era concentrato il grande amore del mondo intero.
“Dormi, Rashid,” il vechio alzò appena appena la mano e lo accarezzò. “Voglio vedere come ti addormenti.”
“Bene,” Rashid cercò di nascondere le guancia inumidita nella coperta. “Ma costa davvero trenta denari? Quel medicinale…”
“Quale?” chiese il nonno.
“Senza cui morirai?”
“Germoglietto mio…,” il vecchio socchiuse le palpebre; si vedeva però che quell’altro colore profondo fluiva sempre dai suoi occhi.” Prima o poi,… dipartirò lo stesso. Qui, adesso,… ti voglio bene.”
Il ragazzo senti la voglia di piangere ad alta voce, singhiozzando, come faceva la giovane donna nel corridoio, poco prima. Si trattenne. Tirò su con il naso.
“Dormi, nonno…”
Suo nonno sorrise e gemendo lo abbracciò. L’avambraccio del piccolo sotto l’ascella del vecchio.
Rashid senti un bel caldo, sorrise tra le lacrime, si chetò.
Tese l’orecchio al fiato del nonno. Leggero, pianissimo, impercettibile, come la galaverna cadente.
Smorzò il pianto che tendeva a scoppiare. Stette immobile perché senti, quasi vide che sotto il biancore di quella galaverna penetrava uno splendore verde che si propagava sempre di piú.
Profondo e tenero come l’ultima carezza del nonno.
2009.
N O T E
1zietta — un’espressione di stima e tenerezza nei confronti di una persona adulta nei Paesi orientali dove alle persone adulte ed anziane si usa dire “zio “e “zia “.
